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Il Dolce Stil Novo a partire da Dante

  • Vanessa Lucarini
  • 3 set 2015
  • Tempo di lettura: 6 min

“O frate, issa vegg’io” diss’elli “il nodo

che l’Notaro e Guittone e me ritenne

di qua dal dolce stil novo ch’i odo.”

Mentre, girovago per l’Italia e con l’amaro in bocca per l’ingiusta condanna che lo aveva separato dalla sua Firenze, stendeva il XXIV canto del Purgatorio, Dante Alighieri non poteva certo immaginare che cinque secoli più tardi qualcuno avrebbe avuto l’intuizione di estrapolare proprio da quei versi la formula che si sarebbe eternizzata nella memoria comune come designatrice dell’avanguardia letteraria che ha visto proprio nel Sommo Poeta il principale esponente. Questo qualcuno non è altri che Francesco De Sanctis, eminente critico letterario e autore di quella Storia della letteratura italiana edita nel 1870, in cui per la prima volta il sintagma “dolce stil novo” prese i connotati di un concetto storiografico che nessuna antologia successiva poté più permettersi il lusso di ignorare.

Dante, dunque , pur nella sua innegabile genialità non sapeva prevedere il futuro, ma era un ottimo osservatore del presente e il modo in cui nella Commedia parla del movimento a cui si era affiliato negli anni giovanili ci mostra quanto effettivamente egli fosse conscio delle sue caratteristiche e del fatto che rappresentasse una svolta rispetto al poetare degli autori della generazione precedente. Il dialogo con Bonagiunta da Lucca ne è un esempio perfetto. Riportando l’attenzione sul sopracitato canto, scopriamo che il poeta lucchese, annoverato tra i golosi in via di espiazione della propria pena, utilizza la fatidica formula dantesca per porre l’accento sul divario che contrappone lo stile poetico da lui praticato in vita, abbastanza artificioso da ridurre la poesia a mera esperienza intellettuale erudita, e il nuovo canone d’arte legato all’ispirazione e alla linearità dell’espressione. Non è affatto casuale che a questo proposito venga tirato in ballo il nome del celeberrimo poeta duecentesco Guittone d’Arezzo. Guittone, infatti, viene visto dagli stilnovisti come l’incarnazione di quel modello trobadorico e sperimentale da cui tanto desideravano distaccarsi, in quanto propugnante l’impostazione prima dei siciliani e poi dei siculo- toscani per cui il valore della poesia risiedeva esclusivamente nelle abilità retoriche del poeta. Non più suoni aspri ed espressioni artificiose date dall’ansia di sfoggiare una certa maestria: i poeti a cavallo tra la fine dell’ XI e l’inizio del XII secolo ormai prediligono la musicalità di rime semplici e armoniose, la cui dolcezza stilistica è un riflesso di quella del sentimento che le ispira. Come afferma il Bonagiunta


“Io veggo ben come le vostre penne

di retro al dittator sen vanno strette,

che de le nostre certo non avvenne;

e qual più a riguardar oltre si mette,

non vede più da l’uno all’altro stilo.”


Il “dittator” a cui il letterato allude non è un individuo in carne e ossa, ma l’Amore più alto e puro, raccolto e ruotante attorno a una figura sublime e quindi del tutto estraneo sia al motivo dell’omaggio feudale del cavaliere alla dama sia all’amore non corrisposto e tutto terreno che sgomentava i cuori dei poeti riuniti alla corte di Federico II. L’oggetto di tale sentimento è una donna eterea e ultraterrena, una creatura angelicata capace di farsi mediatrice tra l’uomo e Dio e dispensatrice di salvezza, che, oltre ad arricchire i lineari componimenti stilnovistici di alti contenuti teologici e filosofici, ispira solo una cerchia ristretta di spiriti eletti. Dante, Guido Cavalcanti, Lapo Gianni, Gianni Alfani, Cino da Pistoia e gli altri esponenti della nuova avanguardia sono gli unici a fregiarsi di tale privilegio; essi, infatti, vedono se stessi come teste pensanti superiori alla massa per genio e intelletto, capaci di un particolare sentire e accomunati dal loro far parte di una corte idealizzata che, come ogni corte che si rispetti, ammette solo nobili. In una dimensione in cui tutto si staglia su un livello superiore, però, anche la nobiltà cambia valenza: non si tratta più di sangue e titolo, ma di una nobiltà d’animo che si manifesta nelle opere individuali e che non rappresenta affatto un controsenso in un contesto storico- sociale nel quale l’affermazione dei comuni aveva visto i valori feudali soccombere di fronte alla rapida ascesa di quelli borghesi.

Nel momento in cui viene scritta la Commedia, tutte queste informazioni sono ben presenti sia alla mente del Dante- autore sia a quella del Dante- personaggio che afferma “I’mi son un che, quando Amor mi spira, noto, e a quel modo ch’è ditta dentro vo significando”; ma la consapevolezza del poeta va oltre. Nell’opera che il Boccaccio definì divina troviamo anche la menzione del componimento che tutt’ora identifichiamo come il manifesto dello Stilnovo e, dulcis in fundo, pure il riconoscimento del precursore del movimento.


Ma dì s’i veggo qui colui che fore

trasse le nove rime, cominciando

“Donne ch’avete intelletto d’amore”.


Donne ch’avete intelletto d’amore è la prima canzone della Vita nova in lode a quella Beatrice che, assieme alla Laura petrarchesca, verrà sempre ricordata come la donna angelo per eccellenza. Già dal titolo possiamo notare quanto il mondo femminile faccia da protagonista nel componimento: donne sono coloro a cui l’autore si rivolge perché reputate intenditrici d’amore e donna è colei di cui egli desidera lodare la perfezione anche a costo di immettersi in un impresa troppo ardua per le possibilità espressive di qualunque uomo. Dante parla del “su’valore” che “Amore sì dolce mi fa sentire”, di “stato gentile”, di “divino intelletto”e di “anima ‘nfin quassù risplende”, tutte espressioni atte a tracciare il profilo tipico della donna stilnovista, la cui divinizzazione raggiunge l’apice quando, a partire dal ventiduesimo verso, si impone sulla scena la voce di Dio che, alla preghiera del poeta di avere con sé l’amata, risponde


“Diletti miei, or sofferite in pace,

che vostra spene sia quanto piace

la’v’è alcuno che perder lei s’attende,

e cche dirà nelo ‘Nferno: ‘O malnati,

i’vidi la speranza de’beati’”


Amore e salvezza si intrecciano così in una serie di endecasillabi coronati da rime piane, andando a costituire quella che nel secondo libro del De vulgari eloquentia Dante definì il maggior esempio di canzone tragica. Non si tratta di un’affermazione da poco visto e considerato che nel suo celebre trattato linguistico l’autore riconosce proprio nella canzone la più alta forma poetica. Altrettanto interessante da rilevare è il modo in cui Donne ch’avete intelletto d’amore, così come Tanto gentile e tanto onesta pare e altre liriche della Vita nova, con l’utilizzo di un registro linguistico aulico, l’introduzione di rime armoniose e il rifiuto di termini considerati troppo infantili o corporali, soddisfi ogni prerogativa dell’ideale volgare illustre teorizzato nel De vulgari. Non c’è dubbio che questa lingua letteraria sia stata immaginata stando ai dettami dell’estetica stilnovista e altrettanto certo è il fatto che essa non abbia mai trovato una concreta realizzazione in alcuna lingua viva. Passando in rassegna tutti i volgari italiani, tra stereotipi e critiche stroncanti, infatti, Dante fallisce miseramente nel tentativo di scovarne uno che fosse al contempo illustre, cardinale, aulico e curiale; ciò, però, non toglie che alcuni volgari si avvicinino maggiormente di altri a questo modello di perfezione. Nel bolognese, ad esempio, viene riscontrata una gradevolezza intrinseca che, se non basta a privilegiarlo in assoluto rispetto agli altri volgari, trova una nobilitazione nel depurato mezzo espressivo di rimatori d’eccellenza, tra i quali non può mancare l’autore di Al cor gentil ripara sempre amore, il Guido Guinizzelli che nel XXVI canto del Purgatorio viene riconosciuto come il padre degli stilnovisti.


Quali ne la tristizia di Ligurgo

Si fer due figli a riveder la madre,

tal mi fec’io, ma non tanto insurgo,

quand’odo nomar se stesso il padre

mio e de li altri miei meglior che mai

rime d’amor usar dolci e leggiadre.


Non si tratta di una menzione isolata, il nome di Guinizzelli viene introdotto anche nella Vita nova, nel Convivio e nel De vulgari eloquentia e si accompagna sempre a parole d’encomio come “saggio” e “nobile”, dietro le quali si cela giustamente grande stima e gratitudine per aver gettato le radici di un nuovo poetare che a Firenze, con gli stilnovisti, avrebbe trovato terra fertile per svilupparsi al punto da trovare un seguito nella poesia petrarchesca e, attraverso questa, in tutta la tradizione lirica italiana posteriore. Forse Dante non poteva immaginare una tale continuità visto che lui stesso, raggiunta la maturità, ha finito per travalicare i confini della chiarezza stilnovistica per addentrarsi nei sentieri ardui e oscuri della semantica delle rime petrose alla Arnaut Daniel o in quelli dello sperimentalismo comico- realistico alla Rustico Filippi trionfante nell’Inferno; tuttavia, come gli esempi appena addotti hanno dimostrato, non ha mai smesso di riconoscere la portata rivoluzionaria della poetica stilnovista, né ne ha mai dimenticato quell’aulicità e quella sublimità che nei momenti più solenni della Commedia tornano nuovamente a galla, sebbene nel contesto di un plurilinguismo mobile che, oscillando continuamente tra un registro linguistico- stilistico e l’altro, aspira a farsi specchio della contraddittorietà della vita.

 
 
 

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