Pir meu cori alligrari e la Scuola siciliana
- Vanessa Lucarini
- 20 lug 2015
- Tempo di lettura: 5 min

Pir meu cori alligrari
chi multu longiamenti
sanza alligranza e joi d’amuri è statu
mi ritornu in cantari,
ca forsi levementi
da dimuranza tumiria in usatu
di lu troppu taciri
e quandu l’omu ha rasuni di diri,
ben di’cantari e mustrari alligranza,
ca senza dimustranza
joi siria sempri di pocu valuri:
dunca ben di’cantar onni amaduri
Pir meu cori alligrari è uno di quei componimenti a cui è difficile non fare riferimento quando si tratta della poesia italiana delle origini. Sin dalla prima strofa, infatti, questa canzone, scritta dal poeta messinese Stefano Protonotaro nel XIII secolo, si dimostra perfettamente esplicativa di tutti i caratteri fondamentali che hanno reso l’esperienza della Scuola siciliana tanto innovativa da porre un punto fermo al periodo che abbraccia i testi di competenza degli antichisti e da inaugurare l’età culturale oggetto di studio di quelli che in ambito accademico vengono definiti “italianisti”.
Al di là dello scarto cronologico, uno dei cambiamenti più importanti e evidenti nel passaggio dalla letteratura classica a quella italiana riguarda sicuramente la lingua e la canzone protonotaresca ne è un chiaro esempio: non più il colto e anacronistico latino e non ancora il nostro italiano, ma solo un riconoscibile volgare siciliano col suo particolare vocalismo (che concepisce come vocali in posizione atona solo “a”, “i” e “u”) e i suoi condizionali in “-ia”, corroborato da francesismi e, soprattutto, da provenzalismi (alligranza, dimustranza...) dovuti all’ingente influenza del modello della lirica amorosa in lingua d’oc, imprescindibile per ognuno dei poeti riuniti alla corte di Federico II di Svevia.
L’originale veste linguistica della poesia siciliana, tuttavia, sarebbe rimasta a noi sconosciuta se l’erudito cinquecentesco Giovanni Maria Barbieri, filologo e cancelliere modenese, non avesse potuto disporre del famoso Libro siciliano, ormai perduto, e non ne avesse annotato fedelmente alcuni componimenti sulle sue carte eponime. Uno di questi, l’unico ad essere trascritto integralmente, fu proprio Pir meu cori alligrari, accompagnato dai frammenti di S’iu truvassi pietati e Allegru cori plenu – attribuiti entrambi a Re Enzo – e di Gioiosamente canto di Guido delle Colonne. Escludendo le Carte Barbieri, inedite fino al XVIII secolo, le uniche testimonianze pervenuteci della lirica delle origini sono rintracciabili all’interno di tre codici di area toscana (il Canzoniere Vaticano 3793, il Laurenziano Rediano 9 e il Palatino 217), i quali, riportando i componimenti in forma toscanizzata, hanno generato l’equivoco che insinuò negli studiosi la certezza che i siciliani poetassero in una lingua sovraregionale simile all’italiano moderno e il conseguente dubbio che il nostro idioma in realtà derivi da quest’ultima e non dal toscano, mito che fortunatamente venne sfatato a metà del XIX secolo dal filologo Giovanni Galvani.
Tutto ciò è accaduto perché gli originali andarono integralmente perduti e le motivazioni di tale perdita sono da ricercare nella storia del centro politico che ha permesso al primo movimento unitario e istituzionale della letteratura italiana di esistere e che, a sua volta, ha tratto da esso il grande prestigio culturale che gli ha consentito di lambire, oltre alle pagine di manuali e monografie storiche, anche quelle di innumerevoli antologie: la corte federiciana.
Federico II di Svevia, incoronato re di Sicilia nel 1208 e re di Germania nel 1212, alla sua terra d’origine preferì certamente un meridione italiano intriso di classicità per costituire un centro propulsore di alta cultura laica capace di rispecchiare degnamente una realtà politica omogenea, stabile e accentrata sotto il suo potere.
La forte connessione tra esperienza poetica e quadro politico, oltre a rispecchiare la doppia natura di statista dinamico e amante della cultura del monarca, trova conferma nel duplice ruolo svolto dai protagonisti della Scuola siciliana, poeti e funzionari al contempo, ma non nelle tematiche affrontate nelle loro opere. Data l’assenza di contrasti interni, nel regno non si avvertì il bisogno di trattare argomenti politici, così il canto di Erato, attraverso le ispirate penne dei trovatori, riuscì facilmente e senza troppa concorrenza ad esercitare il proprio fascino sugli intellettuali che davano lustro alla terra sicula e che gravitavano attorno al suo re. È dunque l’amore, il sentimento più affascinante e ambivalente che ci sia, a colorare i sonetti (celebre forma metrica inaugurata proprio dai poeti siciliani) e le canzoni di nomi celebri come Giacomo da Lentini – primo grande esponente della scuola poetica -, Giacomino Pugliese, Guido delle Colonne, Pier delle Vigne, Rinaldo d’Aquino, Doria e, naturalmente, Stefano Protonotaro.
Facendo ancora una volta riferimento a Pir meu cori alligrari, risulta evidente che la tematica amorosa, introdotta sin dal primo verso, percorre e domina l’intera canzone, reiterando il topos dell’amore non corrisposto tipico di tutta la produzione siciliana, nonché della poesia provenzale.
Osservando la prima e più celebre stanza, scopriamo un poeta triste e frustrato perché non riamato dalla donna dei suoi desideri che, deciso a rallegrare il suo cuore, riprende a scrivere poesie allo scopo di nobilitare quel sentimento tanto alto da venir più volte tirato in causa alla stregua di un illustre personaggio in carne ed ossa. Quello del Protonotaro è un amore con la “a” maiuscola, la cui grandezza non dipende tanto dall’intensità con cui viene sperimentato, ma dal suo essere esternato e celebrato per mezzo di eleganti versi poetici e l’innamorato, essendone pervaso, risulta un privilegiato rispetto al corteggiato, pertanto è quasi un suo dovere nei confronti degli altri cantare la gioia che domina il suo cuore. Tale concezione dell’amore è comune a tutti i poeti riuniti alla corte di Svevia e il fatto che le tre parole ricorrenti più frequentemente nella loro produzione siano “amore”, “core” e “donna” lo dimostra. Tuttavia, quanto allegre e leggere furono le sue tematiche, tanto fu triste e devastante l’epilogo dell’esperienza poetica della Scuola siciliana.
Nel 1250 Federico II morì e da allora il potere della dinastia sveva sul Regno di Sicilia ebbe vita breve. Nel 1266, infatti, ucciso a Benevento re Manfredi (figlio naturale di Federico) e ottenuta la Sicilia su sollecitazione di papa Urbano IV, Carlo I d’Angiò stabilì la supremazia angioina sull’isola del mezzogiorno e provvide alla distruzione della produzione poetica che aveva collaborato alla grandezza culturale della monarchia precedente. Fortunatamente all’epoca la fama della lirica siciliana aveva già avuto modo di varcare i confini isolani per raggiungere il resto d’Italia e ciò ha permesso a tanti incantevoli versi di sopravvivere attraverso le trascrizioni snaturanti ma preziosissime di quei copisti toscani che ce li hanno tramandati. Se oggi, dunque, nel silenzio di una fredda giornata d’inverno o nella quiete di un caldo pomeriggio d’estate abbiamo la possibilità di estraniarci dal mondo immergendoci nei canti soavi della poesia amorosa che rappresenta le radici della nostra letteratura sono due le entità da ringraziare: i poeti che hanno composto e gli amanuensi che hanno conservato; se poi desideriamo intraprendere fino in fondo un viaggio nel tempo all’interno della corte palermitana duecentesca assaporandone anche l’idioma non dobbiamo dimenticarci di essere grati anche al Barbieri, che ha concesso a Stefano Protonotaro il vantaggio di poter comunicare coi posteri nella maniera da lui scelta.
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