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Placito Capuano: l'atto di nascita della lingua italiana

  • di Vanessa Lucarini
  • 1 lug 2015
  • Tempo di lettura: 3 min

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Nell'arduo e secolare percorso di superamento del latino come unica lingua sistematicamente e consapevolmente messa per iscritto, documenti come i Giuramenti di Strasburgo e il Placito Capuano si rivelano fondanti, in quanto veri e propri atti di nascita degli idiomi che, già allora largamente diffusi nell'ambito dell'oralità, caratterizzano le loro rispettive aree di provenienza.

Si tratta di testimonianze di datazione e portata storica ben diversa, ma che condividono la natura giuridica e l'esigenza di rendere una formula comprensibile ad un pubblico a cui il latino era sconosciuto. Come, infatti, Ludovico il Germanico e Carlo il Calvo nell'842 ritennero importante recitare il patto solenne di aiuto reciproco l'uno nella lingua dell'altro (francese e tedesco) in modo che i loro eserciti potessero comprenderne il contenuto, così nel 960 l'abate di Montecassino ritenne necessario che l'esito del processo che lo aveva visto protagonista venisse messo agli atti in volgare perché arrivasse ad un pubblico più vasto possibile e non si verificassero altre contestazioni della stessa natura di quella che aveva determinato la disputa.


Per quanto concerne la causa discussa innanzi al giudice Arechisi nella Capua del X secolo, la contestazione riguardava alcune terre sfruttate dal monastero di Montecassino da decenni e rivendicate da Rodelgrimo d'Aquino, piccolo feudatario locale che se ne proclamava legittimo proprietario. L'abate di Montecassino riteneva che quelle terre dovessero diventare di proprietà del monastero poiché ne aveva usufruito per un considerevole lasso di tempo, e, per sostenere la propria tesi, si era avvalso di tre testimoni, i quali indicarono i confini del territorio benedettino che un contadino aveva illecitamente occupato in seguito alla distruzione dell'abbazia adoperata dai saraceni nell'855.

Le testimonianze si rivelarono assai preziose, non solo perché determinarono un verdetto favorevole ai monaci benedettini, ma anche perché vennero trascritte dal giudice così come erano state pronunciate, in volgare, introducendo una seconda lingua all'interno di un atto scritto prevalentemente nel consuetudinario latino cancelleresco.

Particolarmente memorabile è la formula del giuramento reiterata sia dal giudice che da ognuno dei testimoni


Sao ko kelle terre, per kelle fini qui ki contene, trenta anni le possette parte sancti benedicti


Tradotta, la frase significa "So che quelle terre, in quei confini qui contenuti, le possedette trent'anni la parte di San Benedetto" e risulta interessante sia perchè ci dà un'idea della legge vigente nella Campania dell'epoca (modellata su un decreto longobardo) per cui se un soggetto aveva usufruito di un certo territorio per almeno trent'anni sarebbe dovuto entrare di diritto in suo possesso, sia perché contiene parole come sao (che probabilmente sta per saccio) e kelle che richiamano immediatamente il dialetto campano moderno.


La portata storica del Placito Capuano, conservato tutt'oggi presso la Biblioteca dell'abbazia di Montecassino assieme agli altri Placiti Cassinesi (960- 963), non risiede nel riportare la prima testimonianza scritta di un volgare italiano, ma nel rappresentare il primo caso pervenutoci di utilizzo consapevole di esso. A prima del documento redatto da Arechisi, infatti, risalgono altre iscrizioni ricalcanti forme del parlato, come l'Indovinello veronese (VIII- IX secolo) e il Graffito della catacomba di Commodilla (VI- VII secolo). Tuttavia, mentre la prima rappresenta più una mediazione tra latino medievale e lingua parlata che una vera e propria trasposizione del volgare di uso quotidiano, la seconda risulta il prodotto di uno scrivente semianalfabeta che ha inserito involontariamente fenomeni del parlato corrente. Pertanto, è giusto non solo che il Placito Capuano occupi una posizione di rilievo nella storia della lingua italiana, ma anche che venga citato nelle antologie in quanto prima traccia dello strumento straordinario che ha connotato e continua a connotare la produzione dei nostri grandi poeti e prosatori, permettendo loro di identificarsi come "italiani" anche quando un'Italia politicamente unita non era ancora stata conseguita.
















 
 
 

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