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I chiari e gli scuri nella "Fosca" di Tarchetti

  • Vanessa Lucarini
  • 9 lug 2015
  • Tempo di lettura: 7 min

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La vita è fatta di opposti che contrastano e si compenetrano, accordandosi e discordando a seconda delle circostanze, ma costituendo sempre un complesso di luci, ombre e penombre senza il quale l’esistenza non sarebbe altro che un eterno pianto o una perenne risata. Positivo e negativo, eros e thanatos, bianco e nero sono dunque gli estremi di una linea di sfumature che l’individuo percorre quotidianamente, il quale, ritrovandosi più o meno volontariamente sballottato da una parte all’altra dello spettro cromatico, costruisce la propria esperienza individuale; e di cosa ci parla lo scapigliato Igino Ugo Tarchetti nella sua ultima opera se non di una vita segnata dal dualismo?



Il romanzo Fosca fu pubblicato per la prima volta in appendice al Pungolo tra il febbraio e l’aprile del 1869 e l’esperienza trattata è quella di Giorgio, giovane ufficiale che sin dalle prime pagine si presenta come un uomo “nato con passioni eccezionali” che ha avuto due grandi amori “diversamente sentiti, ma ugualmente fatali e formidabili”.Tali amori si incarnano in due figure diametralmente opposte, nei confronti delle quali l’autore mostra un atteggiamento tutt’altro che equo, facendo recitare all’una la parte della protagonista e all’altra quella della comparsa.Clara, concepita come un incrocio tra la varesotta Carlotta Ponti e una donna che l’autore aveva conosciuto a Milano, rispecchia quel binomio di bellezza e bontà che la rende un convenzionale e poco interessante pastello ottocentesco. Viene descritta come una donna forte e giusta ma anche estremamente dolce e affettuosa, il cui aspetto fisico rispecchia perfettamente i canoni di bellezza dell’epoca: “alta, pura, robusta e serena”. Come facilmente si evince dal nome, Clara rappresenta la luce e, di conseguenza, la vitalità e la felicità; felice è, infatti, l’amore che condivide con Giorgio, che, a sua volta, è coronamento di venticinque anni d’esistenza vissuti all’insegna della beatitudine. Tuttavia, come afferma Tarchetti servendosi delle parole dell’ufficiale, “quello non è stato che un amore felice. Raccontarlo sarebbe lo stesso che ripetere la storia di tutti gli affetti”. Non è quindi un caso che il titolo del romanzo non riprenda il nome di Clara, ma coincida con quello altrettanto eloquente di Fosca. La prima, difatti, compare solo episodicamente e, più che risultare importante di per sé, sembra essere stata introdotta esclusivamente come stereotipo tradizionale atto ad esaltare per contrasto la straordinarietà della seconda: è la storia di Fosca e Giorgio il fulcro dell’opera dello scapigliato.



Fosca, oltre all’origine autobiografica (il personaggio ricalca la figura di Angelina, donna epilettica che l’autore aveva conosciuto a Parma), non ha assolutamente niente in comune con Clara. Si tratta di una donna brutta, scheletrica e spaventosa che rievoca l’idea dell’oscurità e della morte. Presentata dal colonnello come la cugina malata che “tiene il letto sette giorni la settimana”, irrompe sulla scena per la prima volta con le sue grida isteriche, per poi comparire in carne e ossa solo tre capitoli più tardi. Interessante e agghiacciante risulta la prima impressione di Giorgio quando finalmente si trova al suo cospetto: la descrive come una sorta di scheletro rivestito di un sottilissimo strato di pelle, con la testa sproporzionatamente grossa, i capelli neri ed estremamente voluminosi e gli occhi nerissimi, grandi e velati. Bruttezza e malattia sono le due parole chiave per inquadrare il personaggio di Fosca, in quanto collaborano nel determinare la sua condizione di inesorabile infelicità, ponendosi come interdipendenti in un rapporto di causa- effetto dove non è ben chiaro quale sia la causa e quale l’effetto. Dalle confessioni della donna riportate nel capitolo XXIX emerge un’esistenza segnata da un continuo e profondo bisogno d’amore, al quale si è sempre opposta la solitudine determinata dalla bruttezza. Fosca, quindi, riconosce nel suo aspetto esteriore la causa primaria della sua sventura, tuttavia, più che di deformità, allora si trattava di semplice povertà di avvenenza; la vera e propria bruttezza viene determinata da quella malattia tremenda e indecifrabile che la rende “una collezione di tutti i mali possibili”, scaturita dalla sofferenza per un matrimonio illusorio e finito male da cui sono derivate le angoscianti esperienze della perdita della fortuna, dell’orfanità e dell’aborto. D’altro canto, tra tanti svantaggi, bruttezza e malattia conferiscono a Fosca anche un vantaggio: essendo considerata quasi un essere asessuato nella sua impossibilità di suscitare il desiderio di un uomo, non è necessariamente vincolata alle regole di comportamento a cui devono sottostare tutte le donne destinate ad accasarsi e a trovare il proprio posto nella società; può uscire dagli schemi, discorrendo alla pari di cultura con gli uomini e esprimendo giudizi, consapevole del fatto che la sua mostruosità garantirà contro qualsiasi pericolo e sospetto di secondi fini. Ella, dunque, sceglie di nascondesi dietro ad uno stereotipo che non la rispecchia affatto e che verrà totalmente smentito dal prorompere della sua passione amorosa, tanto violenta da diventare ossessione.



A fare le spese di tale ossessività sarà proprio Giorgio, innamorato della solare Clara ma legato a Fosca da un sentimento di attrazione- repulsione che rivela il lato più recondito e inedito della sua psiche, una tendenza necrofila condivisa dal Tarchetti stesso che per questo, com’è già stato messo in evidenza, fa giganteggiare nella narrazione l’imperfezione della donna concreta e malata a discapito della fatua perfezione della sua antitesi milanese. Più di una volta, all’interno del romanzo, il protagonista afferma di amare l’inquietante cugina del colonnello, ma si tratta di un amore subito, malsano e distruttivo che finisce per nuocere fisicamente ai due amanti. Fosca diventa sin da subito dipendente da Giorgio, sente che la sua vita potrebbe spegnersi se l’uomo se ne andasse e, portata all’autoconservazione come ogni altro essere vivente, è pronta ad umiliarsi completamente a lui pur di assicurarsi la sopravvivenza. A questo proposito particolarmente significativo si rivela il capitolo XL, nel quale la donna giunge al punto di seguire Giorgio sul treno per Milano e dirsi pronta a stargli dietro come un’ombra anche a costo di guadagnarsi il suo odio e la sua indifferenza, di farsi sua serva e sua schiava pur di non essere abbandonata; per non parlare delle preghiere che gli aveva rivolto nel capitolo XIX: “Oh, abbiate compassione! Amatemi, amatemi; si ama un cane, una bestia... e perché non amerete me che sono una creatura come voi?”.Tuttavia, Fosca non risulta sempre arrendevole, anzi, cosciente dell’indole altruista dell’amato, vi fa spesso leva per manovrarlo a suo piacimento, trasformandolo nella sua personale marionetta, per poi scoppiare poco dopo in lacrime e implorare il suo perdono. Un personaggio complesso quindi quello che Tarchetti ci presenta, sommamente incoerente e “costante solo nell’amare e nel contraddirsi”, che, oltre a rappresentare il lato oscuro della medaglia che divide con Clara, si pone come soggetto abbastanza strutturato psicologicamente da poter sussistere senza il suo doppio, inglobando in sé ogni ambiguità, facendosi interprete non solo dell’ombra, ma anche dei toni di penombra che si frappongono tra essa e la luce. Mentre, difatti, Clara resta per quasi tutto il romanzo bella e felice allo stesso modo, la malattia, la tristezza e la bruttezza di Fosca, pur mai scomparendo, si accentuano e si affievoliscono a seconda dei momenti.



Ombra e penombra, però, non bastano a completare il complesso chiaroscurale che connota l’esistenza di un individuo, occorre anche la luce, quella luce che negli ultimi capitoli Fosca riesce a raggiungere e, finalmente, a sperimentare. A questo punto, il processo che vede l’unione delle contraddizioni nell’unica figura della protagonista sembra completo, tuttavia non bisogna dimenticare che la percezione di questa agli occhi di Giorgio, filtri dell’intera vicenda, dipende anche dal suo essere radicalmente opposta alla rivale, quindi non può incarnare la positività senza che il suo doppio divenga negativo. In prossimità del finire della narrazione, infatti, il dualismo rappresentato da Clara e Fosca subisce un ribaltamento totale e repentino. L’atmosfera e gli stati d’animo che caratterizzano l’ultimo incontro tra Giorgio e Clara risultano completamente diversi da quelli degli incontri precedenti. La solarità della giovane amata e innamorata che si rifletteva nella luminosità della Milano primaverile è venuta meno; sia l’atmosfera che la donna sono più mesti e, per la prima volta, scendono lacrime amare dalle sue guance. Non c’è più la vitalità del presente, ma solo la nostalgia del passato e un’aria di infelicità che già fanno presagire l’epilogo della loro storia d’amore, epilogo che giunge poco tempo dopo a Giorgio sottoforma di lettera. Clara espone delle buone ragioni per porre fine alla relazione, ma la distruzione di un amore così bello e sentito appare come un gesto ingrato agli occhi dell’ufficiale, un sacrilegio crudele e contro natura che solo un essere mostruoso può commettere. D’un tratto ecco che la donna bella e buona diventa il baluardo della malvagità e quella brutta e ossessiva viene inneggiata come l’unica capace di amare veracemente e incondizionatamente. Di conseguenza, secondo Giorgio, l’unica a meritare il suo affetto, ormai, è Fosca e questa conclusione, anche se dettata più dal dolore che dalla ragione, lo spinge a premiare concretamente la fedeltà di quest’ultima, regalandole la felicità che non ha mai avuto. A questo punto sembra che la gratitudine abbia preso definitivamente il sopravvento sul ribrezzo, tuttavia l’orrore per l’aspetto di Fosca rientra improvvisamente in gioco nel famoso capitolo LVIII, solo abbozzato da Tarchetti e completato da Salvatore Farina, dove si consuma la macabra unione tra i due protagonisti. Durante questo momento di estrema intimità l’antinomico sentimento di attrazione- repulsione raggiunge l’apice, finendo per sconvolgere del tutto il già provato intelletto dell’ufficiale.


“Ciò che avvenne dopo è così spaventoso che la mia mente fugge inorridita. Due lunghe ore di spasimi, di grida, di promesse, di ritrosie ispirate dal ribrezzo, hanno spezzato la mia natura, hanno sfasciato l’edificio delle mie memorie e inaridito l’ultima sorgente delle mie speranze...”


Un trionfo di eros e thanatos: non può che concludersi all’insegna di questa grande e affascinante opposizione un romanzo che nasce dall’incontro e lo scontro di chiari e scuri e che su di essi si costituisce e si sviluppa, sfiorando l’inverosimile e il fantastico per porci davanti alla rappresentazione portata all’estremo di una realtà in cui, verosimilmente, positivo e negativo sono coesistenti.

 
 
 

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